martedì 21 febbraio 2012

LE NOTIZIE DELLA GUERRA



L’inizio del 1943 fu ancora peggiore della fine del precedente anno. Le brutte notizie si erano susseguite le une alle altre. Dopo Tobruk erano cadute Tripoli e parecchie altre città della Libia.
Gli Americani, sopraggiunti in aiuto degli Inglesi, erano anche sbarcati nell’Africa del Nord ed ora si combatteva l’ultima battaglia in Tunisia.
Sul fronte orientale era poi caduta Stalingrado con parecchie altre città russe ed il corpo di spedizione italiano, che si era attestato sul Don, era stato costretto ad una lunga e micidiale ritirata, metaforicamente chiamata “ritirata strategica”.
La notizia più significativa fu quella che la guerra era arrivata con i bombardamenti in Italia e, soprattutto per noi, in Sicilia.
Nella nostra isola vennero colpite le principali città tra cui Palermo, Catania, Trapani ed Augusta e si temeva prossimo uno sbarco degli Alleati. Le popolazioni abbandonarono le città della costa per rifugiarsi nelle campagne dell’interno per sfuggire sia alle bombe sia ad un eventuale sbarco nemico. Alcuni arrivarono anche nelle nostre parti e narravano storie di distruzione, di morte e, soprattutto, di fame.
Io apprendevo le notizie sulla guerra dai giornalini “Il Corriere dei Piccoli” e “Il Balilla” che leggevo avidamente e che evidentemente presentavano l’argomento in forma leggera e propagandistica. Ricordo ancora oggi la prima pagina de “Il Balilla” che iniziava immancabilmente, ogni settimana, a narrare una storia di guerra con dei disegni corredati da didascalie in versi. Quasi sempre la prima vignetta rappresentava in caricatura Re Giorgio d’Inghilterra e Churchill e veniva commentata dai seguenti versetti, che ancora ricordo a memoria: “Re Giorgetto d’Inghilterra / che aveva paura della guerra / chiese aiuto e protezione / al suo amico Ciurcillone”.
Le notizie vere invece le apprendevo in una doppia versione. La prima, mitigata ed ancora infarcita di frasi propagandistiche ed ottimiste, che mi veniva inculcata a scuola, alla radio e alle adunate paramilitari del sabato fascista, che continuavo a frequentare entusiasticamente come balilla. La seconda invece preoccupata e pessimista che deducevo dai discorsi che mio padre Luigi faceva in famiglia, specie dopo aver ascoltato Radio Londra di soppiatto e nottetempo. 
Il palazzo di Piazza San Marco, già sede della Prefettura, dopo che questa si era trasferita nel nuovo Palazzo del Governo appena costruito, era stato adibito a comando della Sesta Armata dell’Esercito Italiano e di tutte le Forze Armate della Sicilia, comprese quelle tedesche. Queste truppe erano dislocate in tutta la nostra isola ed avevano il compito di difendere i “sacri confini della Patria” dall’eventuale attacco delle truppe degli stati “demo-plutocratici”. Il nostro quartiere, essendo vicinissimo al Comando, era frequentato da ufficiali di ogni ordine e grado che io avevo imparato a conoscere bene. Ero diventato un esperto di gradi militari e di divise delle varie armi. Sbalordivo i miei genitori, gli amici ed i conoscenti per la grande competenza acquisita in proposito. Alcuni ufficiali addirittura abitavano in un appartamento requisito e di proprietà della mia famiglia, sito al primo piano della nostra casa.
Avevo assistito in prima fila in Piazza San Marco alla cerimonia del passaggio delle consegne tra il Gen. Roatta ed il Gen. Guzzoni nel comando della 6a Armata. Non avevo perso un solo passo della manifestazione. Mi avevano affascinato soprattutto gli squilli di tromba, gli inni eseguiti dalla banda musicale dell’esercito, gli ordini secchi e repentini dati con voci squillanti e determinate, le sfilate dei militari, i saluti formali seguiti da battute di tacchi e di piedi, le bandiere e gli stendardi al vento.
Mi sentivo partecipe di un importante evento che suscitava in me grande commozione sino alle lacrime.
Tornato alla fine a casa, avevo esternato le mie emozioni ai genitori e grande era stata la sorpresa quando, invece di trovare solidarietà e partecipa­zione al mio stato d’animo, fui subito zittito. Mia madre aveva gli occhi pieni di lacrime mentre mio padre cercava di consolarla e calmarla: stavano discutendo della immediata necessità di “sfollare” la famiglia in campagna dove speravano di sfug­gire ai pericoli della guerra ormai vicina e, soprat­tutto, ai temuti bombardamenti.
Un grandissimo tabellone, attaccato sul muro della Chiesa di San Marco prospiciente la piazza antistante, rappresentava a colori la carta geografica dell’Europa e dell’Africa del Nord.
Delle bandierine italiane e tedesche erano state appuntate sui vari fronti della guerra in corrispondenza delle più importanti città occupate dalle truppe dell’Asse. Le più avanzate erano state apposte su Stalingrado sul fronte orientale, su El Alamein sul fronte Africano, su Atene, sulle altre capitali dei Balcani su quel fronte e su Parigi ed Oslo sul fronte europeo.
Da qualche mese, dopo che era iniziata la ritirata dai vari fronti, nessuno aveva avuto il coraggio di aggiornare il tabellone risistemando le bandierine sulle posizioni arretrate. Qualcuno continuava a sperare ancora, ma invano, che le varie ritirate fossero state veramente strategiche, come proclamavano i bollettini di guerra. Invero i più, sommessamente, temevano il peggio.
Le bandierine, tuttavia, restavano al loro posto per il timore di un’accusa di “disfattismo”.
E dire che il tabellone era sistemato nella stessa piazza del Comando della Sesta Armata e suscitava le amare e malcelate ironie dei passanti.

lunedì 20 febbraio 2012

LA GUERRA


LA II GUERRA MONDIALE AL GIRO DI BOA

    IL 1943 E LA CAMPAGNA D’ITALIA



Tra la fine del 1942, con la sconfitta di El Alamein in Africa, e l’inizio del 1943, con la caduta di Stalingrado in Europa e di Guadalcanal nel Pacifico, si era esaurita definitivamente la prima fase espansiva della guerra da parte delle truppe dell’Asse. Con le conseguenti ritirate,  iniziò la seconda ed ultima fase.
Giovanni De Luna, trattando de “La seconda guerra mondiale”[1], nel par. 7 su “L’assalto alla fortezza Europa”, precisa che “La periodizzazione della seconda guerra mondiale più diffusa a livello storiografico insiste nella distinzione tra le due fasi, 1939/1943 e 1943/1945 prendendo come riferimento proprio l’inversione di tendenza appena descritta …”
Anche Ezio Costanzo, nel primo capitolo del suo libro “Sicilia 1943”,[2] ritiene che “Il 1943, oltre ad essere stato l’anno dell’assalto anglo-americano alla ‘fortezza Europa’, rappresentò ‘il giro di boa’ del conflitto mondiale, registrando una sequenza di eventi che aprirono la strada al definitivo crollo del dominio in Europa del Terzo Reich.”
Per le forze alleate anglo-americane si pose subito dopo il problema della prosecuzione della guerra sia in Europa sia in Asia.
Il 14 Gennaio 1943 si incontrarono a Casablanca il Presidente Americano F. D. Roosevelt ed il Primo Ministro Inglese W. Churchill per prendere in considerazione  l’apertura di un fronte ad Ovest, come era stato espressamente ed insistentemente richiesto da Stalin, per costringere i Tedeschi a difendersi su due fronti. Ovviamente trattarono anche della prosecuzione della guerra nel Pacifico. In tale occasione fu deciso lo sbarco in Sicilia e solo successivamente gli altri nell’Italia continentale.
Il Gen. Alexander[3] ci conferma che “allo scopo di aprire il Mediterraneo alla navigazione delle Nazioni Unite senza tema di interruzioni, la Conferenza di Casablanca considerò l’invasione della Sicilia come continuazione della liberazione del Nord Africa”. Egli aggiunge che allora “non si guardò oltre” (e cioè al successivo sbarco nell’Italia peninsulare).
Il Colonnello inglese G. A. Shepperd[4] ci narra che “La decisione di far seguire l’invasione della Sicilia all’eliminazione delle forze dell’Asse nell’Africa settentrionale venne presa durante la conferenza di Casablanca (Symbol) nel gennaio 1943 e i piani per l’attacco alla penisola italiana si delinearono nel maggio 1943 durante la terza conferenza di Washington (Trident) che segnò la nascita della campagna d’Italia.” …. Egli precisa ancora che “Churchill[5]  parla del suo viaggio in Africa settentrionale per incontrarsi con il generale Eisenhower, immediatamente dopo la conferenza Trident. Fu qui che si decisero le sorti dell’Italia.”
Lo storico italo-americano Carlo D’Este[6] ricostruisce nei dettagli le vicende di questa conferenza e delle successive con ricchezza di particolari e con riferimenti a fonti storiche e documentali di prima mano.
Gli Americani proposero uno sbarco in Francia in quanto ritenevano determinante portare subito la guerra nel cuore dell’Europa. Gli Inglesi, più prudentemente, suggerirono di iniziare con uno sbarco in Sicilia, dove pensavano di poter trovare una minore resistenza, per ottenere, oltre che una facile vittoria, anche lo sganciamento dell’Italia dall’alleanza con la Germania. Rimasero famose le parole usate in tale occasione da Churchill che sollecitava di attaccare prima l’Italia perché la riteneva “il ventre molle dell’Europa”.
Gli Inglesi, capeggiati da un Churchill irruento e caratteriale e dal Capo di stato maggiore imperiale Generale sir Alan Bruke, metodico e pervicace, con l’assistenza di uno staff efficientissimo e forte dell’esperienza acquistata in tre anni di dura guerra, riuscirono a far valere le loro proposte. Gli Americani, invece, rappresentati da un Roosevelt incerto e disponibile e, pur validamente coordinati dal Generale George C. Marshall, Capo di Stato Maggiore, si presentarono alla riunione senza un’adeguata preparazione strategica e senza alcuna sostanziale esperienza per cui furono, alla fine, quasi costretti ad aderire alle proposte inglesi, ricevendo soltanto un formale impegno di uno sbarco in Francia da effettuarsi nel 1944.
Le decisioni prese a Casablanca furono prodromiche delle successive risoluzioni prese subito dopo a Washington e ad Algeri di continuare la guerra, dopo la conquista della Sicilia, nell’Italia continentale e furono determinanti ai fini del successivo andamento della stessa e lo furono di più per le sorti del nostro paese. L’Italia fu sostanzialmente penalizzata da queste decisioni dato che la guerra continuò nel suo territorio per tutti i due anni successivi con immani lutti e distruzioni provocati dalla caduta del Fascismo, dall’invasione tedesca e dalla conseguente guerra civile. Furono, invece, favorite la Sicilia e l’Italia Meridionale dato che per questi territori la guerra finì quasi subito con dei danni, tutto sommato, limitati.
Lunghe ed, ancora oggi, controverse sono state le diatribe in ordine a tali scelte.
Programmare, come fu fatto, un attacco all’Europa nazista partendo dalla Sicilia, è stato considerato un malcelato progetto strumentale più che un grave errore strategico.
Venne previsto un attacco alla cosiddetta “fortezza Europa” affrontando il nemico in uno dei punti più periferici e, come è stato detto, “anziché mirare al cuore o alla testa preferirono colpirlo all’alluce”[7]. E, vedi caso, l’alluce risultò essere peraltro uno dei baluardi geograficamente più fortificati dello schieramento.
E’ probabile, infatti, che siano state tenute in maggior considerazione le valutazioni politiche opportunistiche più che le condizioni oroidrografiche della penisola italiana, interamente percorsa dalla catena montuosa degli Appennini e delle sue propaggini che la traversano in tutti i sensi. Queste rendevano difficilissima la conduzione di una guerra di movimento quale fu quella attuata in tutto il conflitto, prima dai Tedeschi e poi dagli stessi Alleati.
Tuttavia forse non venne considerato adeguatamente il potenziale difensivo delle truppe tedesche che, in un tale territorio, riuscirono a bloccare e, comunque, a rallentare per mesi e mesi l’avanzata degli Alleati.
Tale circostanza fu, peraltro, subito evidente già in Sicilia dove un ridotto numero di truppe tedesche, coadiuvate da pochi italiani male armati e demotivati, riuscì a fermare per molte settimane l’invasione e principalmente l’VIII° armata del Generale Montgomery nella linea pedemontana tra le province di Catania ed Enna.
In tal  modo si consentì il ritiro oltre lo Stretto di Messina di quasi tutte le truppe ed i mezzi combattenti, rendendo per altro oltremodo difficile la conquista dell’Isola.
L’unico previsto e concreto effetto che si ottenne fu quello della caduta di Mussolini, del Fascismo e dell’armistizio con l’Italia. Tale vantaggio si rivelò, però, praticamente inesistente e forse controproducente. Immediatamente dopo, infatti, l’Italia venne invasa dai Tedeschi, senza che le poche truppe italiane stanziate nel territorio nazionale, sbandate e mal comandate, avessero potuto opporre resistenza alcuna (infatti il meglio dell’esercito era stato dislocato all’estero ed era stato in gran parte annientato nelle disastrose campagne di Russia e d’Africa).
Sta di fatto che la campagna d’Italia perdurò per ben due anni circa. Quando la Germania fu, alla fine, messa in ginocchio a seguito dell’apertura del fronte occidentale dopo lo sbarco in Normandia, avvenuto un anno dopo quello in Sicilia, ancora la conquista dell’Italia non era stata completata.
Tali decisioni furono variamente motivate e criticate.
Hugh Pond[8], colonnello e storico inglese, ci precisa che “gli Stati Uniti erano molto perplessi circa l’opportunità di continuare la guerra, in qualunque forma, nel Mediterraneo …. che tali operazioni non avrebbero distrutto la Germania, sarebbero state di scarsa utilità alla Russia e non avrebbero avuto il minimo effetto sul Giappone … e non si può dire che avessero torto.” A tali osservazioni, gli Inglesi risposero ambiguamente e con inadeguate valutazioni strategiche, che “Se si fosse arrivati a far uscire dalla guerra l’Italia, si sarebbe messa la Germania con le spalle al muro”, ma tale conseguenza non ci fu.
Carlo d’Este[9] afferma che, nonostante gli Americani fossero contrari alla prosecuzione della guerra nel Mediterraneo, tuttavia dovettero accettare a malincuore la scelta dello sbarco in Sicilia tanto che: “Sebbene detestasse tutto ciò che aveva a che fare con il Mediterraneo, Marshall non aveva dubbi sui vantaggi di invadere la Sicilia che considerava la migliore delle alternative disponibili … Se le sue ragioni contro ulteriori operazioni nel Mediterraneo non fossero state ascoltate (come non lo furono) …. avrebbe accettato (come poi fece) la Sicilia come operazione fondamentale e necessaria per accorciare le linee di comunicazione ed aprire tutto il Mediterraneo al movimento alleato”, ma non per altro.
Il Colonnello G. A. Shepperd[10] non nasconde i con­trasti esistenti in proposito tra Inglesi ed Ame­ricani ed, a sostegno della strategia inglese, riferi­sce quanto replicò sul punto di vista americano il generale Alanbrooke con “un magistrale apprez­zamento della situazione bellica” come riportato da Artur Bryant[11]e cioè che “Le ventuno divisioni disponibili nel 1943 non potevano portare a buon fine un attacco al di là della Manica. I Tedeschi erano troppo forti in Francia … Tuttavia, se gli Al­leati avessero attaccato nel Mediterraneo, i Tede­schi sarebbero stati costretti a spiegare … grandi forze per difendere una lunghissima linea costiera … Eliminando dalla guerra l’Italia, gli Alleati ... avrebbero lasciato la Germania con 54 divisioni e 2200 aerei in meno”.
Anche lo storico Claude Bertin[12] ci conferma che la posizione inglese, portata avanti da Churchill e dal suo Stato maggiore, era stata quella di ritenere che l’Africa Settentrionale avrebbe dovuto “svolgere la funzione …. di un trampolino di lancio” per invadere prima la Sicilia e poi l’Italia, come fu fatto, per poi attaccare la Germania da Sud, “essendo impossibile realizzare nel 1943 l’operazione Round-up (sbarco in Francia) a causa delle difficoltà di mettere così rapidamente insieme le 48 divisioni …”.
Alberto Santoni[13] aderisce a tali tesi con ulteriori argomentazioni e conclude però che “La storiografia …  soprattutto americana e marxista, punta troppo spesso il dito accusatore su Churchill, raffigurandolo come prevenuto oppositore del piano di sbarco oltre la Manica, al deliberato proposito antisovietico … “ e si dilunga poi su una presunta “buona fede di Churchill”, citando a sua difesa alcuni scritti dello stesso interessato.
In effetti bisogna pur riconoscere che è oltremodo probabile che la pervicacia degli Inglesi e di Churchill in particolare nel sostenere la campagna d’Italia fu determinata da inconfessabili calcoli politici a lungo termine.
Da un lato si immaginava che dare eccessivo spazio alle iniziative americane avrebbe potuto alla lunga aprire e facilitare la strada alla nuova nascente leadership statunitense, a discapito di quella inglese. Dall’altro lato si temeva anche che, aiutando concretamente i Russi con l’apertura immediata di un nuovo fronte in Francia, questi ultimi avrebbero avuto più facilmente ragione dei Tedeschi occupando gran parte dell’Europa continentale, a discapito di tutto il mondo occidentale.
Sta di fatto che ambedue le ipotesi vennero mancate: gli Americani riuscirono lo stesso a subentrare all’Inghilterra nella leadership del mondo occidentale e la Russia riuscì ad occupare tutta l’Europa dell’Est, mantenendola poi sotto la sua concreta dominazione per oltre sessanta anni.  
Come ci dice lo storico Giovanni De Luna[14], “In Wiston Churchill, una volta emersa con chiarezza la prospettiva della sconfitta hitleriana, furono molto presenti considerazioni e progetti legati più al dopoguerra che non alla guerra stessa. In particolare sul secondo fronte, Churchill fu sempre molto tiepido agli appelli di Stalin …”.
Egli continua assumendo che “Strenuo assertore del secondo fronte fu invece Roosevelt … (che) rimase sempre fedele al suo disegno strategico iniziale, quello che nella Germania aveva identificato l’avversario da battere …”.“(Egli) era assistito dalla consapevolezza che, alla fine della guerra, si sarebbe registrata comunque una incontrastata leadership internazionale degli U.S.A. tale da non rendere preoccupante un’eventuale accresciuta potenza sovietica …”.
L’Amm. Oscar Di Giamberardino[15] rileva che, dato che i Sovietici avevano “insistito” per l’apertura di “un nuovo fronte nell’Europa Occidentale allo scopo di far diminuire la pressione” tedesca sul fronte russo, gli Inglesi, ricordando Dunkerque, “non erano propensi a ritentare un’altra azione in Francia”, per cui proposero prima uno sbarco nell’Africa del Nord e poi in Sicilia.
Continua poi il Di Giamberardino che, non volendosi o non potendosi gli Alleati impegnare in Francia, “sarebbe stato conveniente forse proseguire via mare, con l’occupazione della Sardegna e della Corsica, per poi sbarcare in Toscana servendosi anche dell’isola d’Elba in funzione di ponte, o meglio in Provenza …”. Invece “è avvenuta l’avanzata nella penisola (italiana) …”. “Certo nel cambio di obbiettivo non si poteva affermare con serietà che la promessa di alleggerire la pressione sulla Russia fosse davvero mantenuta”.
Ancora il Di Giamberardino ha costatato che “è caratteristico dell’empirismo anglosassone quello di tendere ad allenamenti graduali, per saggiare le difficoltà e … giungere al momento dello sforzo massimo … con la quasi certezza di aver provveduto nel modo migliore a tutto …”.
Lo stesso storico afferma che “Gli Anglo-Americani, oltre tutto, attesero tanto nella convinzione che la Germania fosse ancora troppo forte e che convenisse farle subire altre onerose disavventure nel fronte orientale”.


[1] Giovanni De Luna, La Seconda Guerra Mondiale, in XIX Cap. del Vol. 13° de “La Storia” UTET Ed. Torino e La Biblioteca di Repubblica, 2004, p. 676.
[2] Ezio Costanzo, Sicilia 1943, Breve storia dello sbarco alleato, Le Nuove Muse ed. Catania, 2003, p.17.
[3] Harold Rupert Alexander, The Allied Armies in Italy, e  Le memorie del maresciallo Alexander, 1940-45, a cura di John North, Milano, Garzanti, 1963.
[4] G.A. Shepperd in La Campagna d’Italia, 1943-1945, Garzanti Ed. Milano 1975, pp. 14 e segg.
[5] Winston Churchill, La Seconda Guerra Mondiale, Vol. 6°,  su la Battaglia d’Africa e la Campagna d’Italia, I Problemi della Vittoria, Mondadori Ed. Milano 1965, pp. 2185 e segg.
[6] Carlo D’Este, Lo Sbarco in Sicilia, Mondadori Editore, 1990, p. 15 e segg.
[7] Arthur Bryant, Tempo di Guerra, Milano 1972, p. 795 e Simona Cascio, Luglio 1943 in Provincia di Enna, Memorie e Testimonianze, Tesi di Laurea Università di Catania, Fac. Scienze Formazione, a. a. 2006/07, p. 27.
[8] Hugh Pond, Sicilia!, Longanesi & C. Ed., Milano, 1964/71, p.37 e segg.  
[9] Carlo D’Este, op. cit. p. 30
[10] G.A..Shepperd in La Campagna d’Italia, 1943-1945, op. cit., pp. 14 e segg.
[11] Arthur Bryant, The Turn of the Tide  1939 – 1943, Collins Ed.. London 1953, p. 471.
[12] Claude Bertin, in “Dalla Sicilia alla Provenza”, in La Seconda Guerra Mondiale, Ed. Ferni, Ginevra, 1973, p. 10 e segg.
[13] Alberto Santoni, “Le operazioni in Sicilia e in Calabria (Luglio 1943 – Settembre 1943), edito dall’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito SME, Roma 1983, p. 26 e segg.
[14] Giovanni De Luna, La Seconda Guerra Mondiale, op.cit., p. 681.
[15] Oscar di Giamberardino, Introduzione allo studio delle operazioni nel bacino del Mediterraneo e nel Marocco nel periodo compreso tra lo sbarco in Africa e l’occupazione della Sicilia, Centro di alti Studi Militari, 3° Sessione, Roma 1951/52, p. 10 e segg.

ERO BALILLA




Nell’autunno del 1942 avevo cominciato a frequentare la quinta classe della scuola elementare ed ero stato anche promosso da “figlio della lupa”  a “balilla”.
Già ad Ottobre arrivò la notizia della sconfitta delle truppe dell’Asse ad El Alamein. Dai bollettini di guerra che ogni giorno il nostro maestro ci leggeva si capì che la guerra in Nord Africa non andava bene. Ma la notizia che più di tutte ci colpì era stata quella della successiva caduta di Tobruk in mano agli Inglesi.
Stranamente noi ragazzi ci sentivamo legati a questa cittadina della Cirenaica che già era stata perduta e riconquistata dalle nostre truppe parecchie volte. Avevamo anche visto ripetutamente, nell’unico cinema di Enna, un eroico film di guerra su una delle tante battaglie per Tobruk.
Ogni volta che le truppe italiane riconquistavano quella roccaforte, il nostro maestro, all’inizio della lezione, dopo averci invitato ad alzarci ed a metterci sull’attenti, ci leggeva con voce stentorea l’ultimo bollettino di guerra. Così apprendevamo che “le eroiche truppe dell’Asse” avevano conquistato Tobruk. L’annuncio veniva accolto con grandi grida di giubilo dato che ciò significava che per quel giorno non ci sarebbero state lezioni perché si doveva fare “la dimostrazione”. Venivamo quindi invitati a lasciare la scuola “ordinatamente” per recarci a casa, posare i libri, indossare la divisa di balilla e ritornare per la sfilata.
La via Roma, adiacente la nostra scuola, veniva subito invasa da un festoso turbinio di ragazzi di tutte le scuole, che allora erano ubicate nell’ex convento dei Gesuiti di S. Chiara. Tutti correvamo gridando di gioia, più per la vacanza che per la vittoria conseguita.
Ci si metteva in divisa, si tornava di nuovo a scuola dove ciascuno di noi, assumendo un atteggiamento marziale, prendeva il posto assegnato in base alla squadra cui apparteneva, al grado ed all’incarico che ricopriva ed, infine, all’altezza.
Avanti sfilava il gagliardetto portato dal “capo- manipolo”, poi veniva la squadra dei tamburini che battevano il tempo della marcia a passo romano ed infine tutte le varie squadre, ordinate per classe. Per primi sfilavano i “Figli della Lupa”, bambini sino alla quarta elementare. Venivamo poi i “Balilla”, ragazzi sino alla terza ginnasio. Quindi sfilavano gli “Avanguardisti”, studenti delle superiori ed, infine, gli “Universitari”. La stessa cosa si ripeteva per le ragazze e per gli anziani, con corpi e gradi diversi.
Ero anche tamburino, incarico conquistato dopo lunghe e snervanti selezioni, dato che  avevo un buon orecchio musicale. Ero molto orgoglioso della mia divisa, del mio tamburo e del grande medaglione che portavo al petto, dove c’era riprodotta l’effigie del Duce di profilo con elmo guerresco.
La sfilata si snodava per le vie cittadine e si concludeva in Piazza S. Benedetto avanti alla “Casa del Fascio” dove ogni squadra si ordinava disciplinatamente in ranghi serrati. Nell’attesa di vedere apparire al balcone il “Federale”, ci si sgolava a gridare all’unisono i vari motti del regime. Da “Vincere e vinceremo”, a “Viva il Duce e viva il Re” ed a vari ed innumerevoli saluti fascisti ed “Eia, eia, alalà”.
Di tanto in tanto si intonavano anche alcune strofe delle canzoni di rito tra cui prevaleva “giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza …”.    
Infine si apriva il fatidico balcone e si affacciava il Federale con accanto i vari gerarchi locali, tutti in divisa.
Poche parole stentoree, in perfetto stile mussoliniano, celebravano l’avvenimento e quindi, dopo gli ultimi canti, la dimostrazione veniva sciolta ed eravamo autorizzati a tornarcene a casa.
Tutti tranne coloro che, come me, avevano qualcosa da riconsegnare a scuola. Io, con gran dolore, dovevo riportare il tamburo. Mi sfogavo, però, suonandolo e battendolo vibratamente ancora per tutta la strada sin dentro il cortile della scuola, suscitando le ire prima dei passanti ed, infine, del bidello.
Si andava quindi alla villetta del Belvedere a giocare, a litigare, a rincorrerci sempre in divisa, contravvenendo all’ordine ricevuto di andare subito a riporla a casa per non “disonorarla”. 
Cessata la manifestazione, la nostra vita riprendeva il solito andazzo e non venivamo a sapere mai quando “le eroiche truppe dell’Asse” avevano perso Tobruk per le alterne vicende della guerra.
Sta di fatto che, dopo qualche tempo, il maestro ci leggeva un nuovo bollettino di guerra. Risultava ancora che sempre le stesse “eroiche truppe dell’Asse” avevano riconquistato Tobruk.
La storia era sempre la stessa. Nessuno aveva l’ardire di rilevare che era la medesima “dimostrazione” che si ripeteva uguale alle precedenti.

PREFAZIONE






L’ultima invasione della Sicilia nel Luglio 1943, quando sbarcarono gli Anglo-americani e della quale fui testimone, è stata una delle esperienze più traumatiche delle mia vita.
Quei fatti mi sono rimasti impressi nella memoria, nonostante il lungo tempo trascorso e la circostanza, non trascurabile, che allora io fossi soltanto un ragazzo di dieci anni.
Ho ritrovato recentemente, tra i miei libri, un volumetto intitolato “Cronachetta Siciliana dell’estate 1943”[1] di Nino Savarese, scritto di getto dall’autore quando ancora la Seconda Guerra Mondiale era in corso e che, in un turbinio di una sola estate, aveva da poco lasciato la Sicilia.
Il Savarese ci fa una breve cronaca, la sua cronaca, della guerra che ha visto, ci espone le sue riflessioni e così comincia: “La guerra, che ancora si combatte, qui è vista solo in un piccolissimo punto dello spazio immenso  che essa occupa e in un breve momento della sua durata. Il luogo è il giro di una piccola contrada dell’interno della Sicilia; il tempo dell’estate del 1943. Null’altro che un ricordo delle poche cose che ho visto e dei pensieri che mi hanno rattristato.”
Desidero oggi narrare la mia cronaca ed esporre le mie riflessioni su quella lunga estate dallo stesso punto di vista: una piccola contrada all’interno della Sicilia.
Ho pensato di rivivere quegli avvenimenti anche per confrontarli con le mie successive esperienze di vita e, per quanto possibile, con gli scritti di alcuni di coloro che negli anni hanno trattato l’argomento.
Di tanto riferisco: da un lato i miei ricordi (in caratteri normali) e dall’altro le mie letture (in caratteri corsivi), con il solo scopo di dare una testimonianza, la mia testimonianza, dettata solo dalle mie impressioni e valutazioni personali.
Voglio solo sperare che io sia riuscito a trasmettere ai miei lettori le sensazioni che hanno suscitato in me i ricordi che narro ed i fatti storici che esamino.
Buona lettura.
L’autore



[1] Nino Savarese, Cronachetta Siciliana dell’Estate 1943, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta Roma 1963,