ERO BALILLA, in Sicilia nel 1943
L'autore Eugenio Amaradio, avvocato in Enna, si occupa oltre che di diritto anche di storia e narrativa. In questo libro tratta dell'ultima invasione della Sicilia, quando nel 1943 sbarcarono di Anglo-americani. Egli alterna ai suoi ricordi personali di balilla, le sue letture storiche sulla guerra. Il volume è stato pubblicato in proprio nella collana "ilmiolibro" del Gruppo Editoriale L'Espresso, in catalogo anche su LaFeltrinelli al prezzo di copertina di €. 12,00.
domenica 23 agosto 2015
martedì 21 febbraio 2012
LE NOTIZIE DELLA GUERRA
L’inizio del 1943 fu ancora peggiore
della fine del precedente anno. Le brutte notizie si erano susseguite le une alle
altre. Dopo Tobruk erano cadute Tripoli e parecchie altre città della Libia.
Gli Americani, sopraggiunti in aiuto
degli Inglesi, erano anche sbarcati nell’Africa del Nord ed ora si combatteva
l’ultima battaglia in Tunisia.
Sul fronte orientale era poi caduta
Stalingrado con parecchie altre città russe ed il corpo di spedizione italiano,
che si era attestato sul Don, era stato costretto ad una lunga e micidiale
ritirata, metaforicamente chiamata “ritirata
strategica”.
La notizia più significativa fu quella
che la guerra era arrivata con i bombardamenti in Italia e, soprattutto per
noi, in Sicilia.
Nella nostra isola vennero colpite le
principali città tra cui Palermo, Catania, Trapani ed Augusta e si temeva prossimo
uno sbarco degli Alleati. Le popolazioni abbandonarono le città della costa per
rifugiarsi nelle campagne dell’interno per sfuggire sia alle bombe sia ad un
eventuale sbarco nemico. Alcuni arrivarono anche nelle nostre parti e narravano
storie di distruzione, di morte e, soprattutto, di fame.
Io apprendevo le notizie sulla guerra
dai giornalini “Il Corriere dei Piccoli” e “Il Balilla” che leggevo avidamente
e che evidentemente presentavano l’argomento in forma leggera e
propagandistica. Ricordo ancora oggi la prima pagina de “Il Balilla” che
iniziava immancabilmente, ogni settimana, a narrare una storia di guerra con
dei disegni corredati da didascalie in versi. Quasi sempre la prima vignetta
rappresentava in caricatura Re Giorgio d’Inghilterra e Churchill e veniva
commentata dai seguenti versetti, che ancora ricordo a memoria: “Re Giorgetto d’Inghilterra / che aveva paura
della guerra / chiese aiuto e protezione / al suo amico Ciurcillone”.
Le notizie vere invece le apprendevo in
una doppia versione. La prima, mitigata ed ancora infarcita di frasi propagandistiche
ed ottimiste, che mi veniva inculcata a scuola, alla radio e alle adunate
paramilitari del sabato fascista, che continuavo a frequentare
entusiasticamente come balilla. La seconda invece preoccupata e pessimista che
deducevo dai discorsi che mio padre Luigi faceva in famiglia, specie dopo aver
ascoltato Radio Londra di soppiatto e nottetempo.
Il palazzo di Piazza San Marco, già sede
della Prefettura, dopo che questa si era trasferita nel nuovo Palazzo del Governo
appena costruito, era stato adibito a comando della Sesta Armata dell’Esercito Italiano
e di tutte le Forze Armate della Sicilia, comprese quelle tedesche. Queste
truppe erano dislocate in tutta la nostra isola ed avevano il compito di
difendere i “sacri confini della Patria”
dall’eventuale attacco delle truppe degli stati “demo-plutocratici”. Il nostro quartiere, essendo vicinissimo al
Comando, era frequentato da ufficiali di ogni ordine e grado che io avevo
imparato a conoscere bene. Ero diventato un esperto di gradi militari e di
divise delle varie armi. Sbalordivo i miei genitori, gli amici ed i conoscenti
per la grande competenza acquisita in proposito. Alcuni ufficiali addirittura
abitavano in un appartamento requisito e di proprietà della mia famiglia, sito
al primo piano della nostra casa.
Avevo assistito in prima fila in Piazza
San Marco alla cerimonia del passaggio delle consegne tra il Gen. Roatta ed il
Gen. Guzzoni nel comando della 6a Armata. Non avevo perso un solo passo della
manifestazione. Mi avevano affascinato soprattutto gli squilli di tromba, gli
inni eseguiti dalla banda musicale dell’esercito, gli ordini secchi e repentini
dati con voci squillanti e determinate, le sfilate dei militari, i saluti
formali seguiti da battute di tacchi e di piedi, le bandiere e gli stendardi al
vento.
Mi sentivo partecipe di un importante
evento che suscitava in me grande commozione sino alle lacrime.
Tornato alla fine a casa, avevo
esternato le mie emozioni ai genitori e grande era stata la sorpresa quando,
invece di trovare solidarietà e partecipazione al mio stato d’animo, fui subito
zittito. Mia madre aveva gli occhi pieni di lacrime mentre mio padre cercava di
consolarla e calmarla: stavano discutendo della immediata necessità di “sfollare” la famiglia in campagna dove
speravano di sfuggire ai pericoli della guerra ormai vicina e, soprattutto,
ai temuti bombardamenti.
Un grandissimo tabellone, attaccato sul
muro della Chiesa di San Marco prospiciente la piazza antistante,
rappresentava a colori la carta geografica dell’Europa e dell’Africa del Nord.
Delle bandierine italiane e tedesche
erano state appuntate sui vari fronti della guerra in corrispondenza delle più
importanti città occupate dalle truppe dell’Asse. Le più avanzate erano state
apposte su Stalingrado sul fronte orientale, su El Alamein sul fronte Africano,
su Atene, sulle altre capitali dei Balcani su quel fronte e su Parigi ed Oslo
sul fronte europeo.
Da qualche mese, dopo che era iniziata
la ritirata dai vari fronti, nessuno aveva avuto il coraggio di aggiornare il tabellone
risistemando le bandierine sulle posizioni arretrate. Qualcuno continuava a
sperare ancora, ma invano, che le varie ritirate fossero state veramente
strategiche, come proclamavano i bollettini di guerra. Invero i più, sommessamente,
temevano il peggio.
Le bandierine, tuttavia, restavano al
loro posto per il timore di un’accusa di “disfattismo”.
E dire che il tabellone era sistemato
nella stessa piazza del Comando della Sesta Armata e suscitava le amare e
malcelate ironie dei passanti.
lunedì 20 febbraio 2012
LA GUERRA
LA II GUERRA MONDIALE AL GIRO DI BOA
IL 1943 E LA CAMPAGNA D’ITALIA
Tra
la fine del 1942, con la sconfitta di El Alamein in Africa, e l’inizio del
1943, con la caduta di Stalingrado in Europa e di Guadalcanal nel Pacifico, si
era esaurita definitivamente la prima fase espansiva della guerra da parte
delle truppe dell’Asse. Con le conseguenti ritirate, iniziò la seconda ed ultima fase.
Giovanni
De Luna, trattando de “La seconda guerra mondiale”[1], nel par. 7 su
“L’assalto alla fortezza Europa”, precisa che “La periodizzazione della seconda
guerra mondiale più diffusa a livello storiografico insiste nella distinzione
tra le due fasi, 1939/1943 e 1943/1945 prendendo come riferimento proprio
l’inversione di tendenza appena descritta …”
Anche
Ezio Costanzo, nel primo capitolo del suo libro “Sicilia 1943” ,[2] ritiene che “Il 1943,
oltre ad essere stato l’anno dell’assalto anglo-americano alla ‘fortezza
Europa’, rappresentò ‘il giro di boa’ del conflitto mondiale, registrando una
sequenza di eventi che aprirono la strada al definitivo crollo del dominio in
Europa del Terzo Reich.”
Per
le forze alleate anglo-americane si pose subito dopo il problema della
prosecuzione della guerra sia in Europa sia in Asia.
Il
14 Gennaio 1943 si incontrarono a Casablanca il Presidente Americano F. D.
Roosevelt ed il Primo Ministro Inglese W. Churchill per prendere in
considerazione l’apertura di un fronte
ad Ovest, come era stato espressamente ed insistentemente richiesto da Stalin,
per costringere i Tedeschi a difendersi su due fronti. Ovviamente trattarono
anche della prosecuzione della guerra nel Pacifico. In tale occasione fu deciso
lo sbarco in Sicilia e solo successivamente gli altri nell’Italia continentale.
Il
Gen. Alexander[3]
ci conferma che “allo scopo di aprire il Mediterraneo alla navigazione delle
Nazioni Unite senza tema di interruzioni, la Conferenza di
Casablanca considerò l’invasione della Sicilia come continuazione della
liberazione del Nord Africa”. Egli aggiunge che allora “non si guardò oltre” (e
cioè al successivo sbarco nell’Italia peninsulare).
Il
Colonnello inglese G. A. Shepperd[4] ci narra che “La
decisione di far seguire l’invasione della Sicilia all’eliminazione delle forze
dell’Asse nell’Africa settentrionale venne presa durante la conferenza di
Casablanca (Symbol) nel gennaio 1943 e i piani per l’attacco alla penisola
italiana si delinearono nel maggio 1943 durante la terza conferenza di
Washington (Trident) che segnò la nascita della campagna d’Italia.” …. Egli
precisa ancora che “Churchill[5] … parla del suo viaggio in Africa settentrionale
per incontrarsi con il generale Eisenhower, immediatamente dopo la conferenza
Trident. Fu qui che si decisero le sorti dell’Italia.”
Lo
storico italo-americano Carlo D’Este[6] ricostruisce nei
dettagli le vicende di questa conferenza e delle successive con ricchezza di
particolari e con riferimenti a fonti storiche e documentali di prima mano.
Gli
Americani proposero uno sbarco in Francia in quanto ritenevano determinante
portare subito la guerra nel cuore dell’Europa. Gli Inglesi, più prudentemente,
suggerirono di iniziare con uno sbarco in Sicilia, dove pensavano di poter
trovare una minore resistenza, per ottenere, oltre che una facile vittoria,
anche lo sganciamento dell’Italia dall’alleanza con la Germania. Rimasero
famose le parole usate in tale occasione da Churchill che sollecitava di
attaccare prima l’Italia perché la riteneva “il ventre molle dell’Europa”.
Gli
Inglesi, capeggiati da un Churchill irruento e caratteriale e dal Capo di stato
maggiore imperiale Generale sir Alan Bruke, metodico e pervicace, con l’assistenza
di uno staff efficientissimo e forte dell’esperienza acquistata in tre anni di
dura guerra, riuscirono a far valere le loro proposte. Gli Americani, invece,
rappresentati da un Roosevelt incerto e disponibile e, pur validamente
coordinati dal Generale George C. Marshall, Capo di Stato Maggiore, si
presentarono alla riunione senza un’adeguata preparazione strategica e senza
alcuna sostanziale esperienza per cui furono, alla fine, quasi costretti ad
aderire alle proposte inglesi, ricevendo soltanto un formale impegno di uno
sbarco in Francia da effettuarsi nel 1944.
Le
decisioni prese a Casablanca furono prodromiche delle successive risoluzioni
prese subito dopo a Washington e ad Algeri di continuare la guerra, dopo la
conquista della Sicilia, nell’Italia continentale e furono determinanti ai fini
del successivo andamento della stessa e lo furono di più per le sorti del
nostro paese. L’Italia fu sostanzialmente penalizzata da queste decisioni dato
che la guerra continuò nel suo territorio per tutti i due anni successivi con
immani lutti e distruzioni provocati dalla caduta del Fascismo, dall’invasione
tedesca e dalla conseguente guerra civile. Furono, invece, favorite la Sicilia e l’Italia
Meridionale dato che per questi territori la guerra finì quasi subito con dei
danni, tutto sommato, limitati.
Lunghe
ed, ancora oggi, controverse sono state le diatribe in ordine a tali scelte.
Programmare,
come fu fatto, un attacco all’Europa nazista partendo dalla Sicilia, è stato
considerato un malcelato progetto strumentale più che un grave errore
strategico.
Venne
previsto un attacco alla cosiddetta “fortezza Europa” affrontando il nemico in
uno dei punti più periferici e, come è stato detto, “anziché mirare al cuore o
alla testa preferirono colpirlo all’alluce”[7]. E, vedi caso,
l’alluce risultò essere peraltro uno dei baluardi geograficamente più
fortificati dello schieramento.
E’
probabile, infatti, che siano state tenute in maggior considerazione le
valutazioni politiche opportunistiche più che le condizioni oroidrografiche
della penisola italiana, interamente percorsa dalla catena montuosa degli Appennini
e delle sue propaggini che la traversano in tutti i sensi. Queste rendevano
difficilissima la conduzione di una guerra di movimento quale fu quella attuata
in tutto il conflitto, prima dai Tedeschi e poi dagli stessi Alleati.
Tuttavia
forse non venne considerato adeguatamente il potenziale difensivo delle truppe
tedesche che, in un tale territorio, riuscirono a bloccare e, comunque, a
rallentare per mesi e mesi l’avanzata degli Alleati.
Tale
circostanza fu, peraltro, subito evidente già in Sicilia dove un ridotto numero
di truppe tedesche, coadiuvate da pochi italiani male armati e demotivati,
riuscì a fermare per molte settimane l’invasione e principalmente l’VIII°
armata del Generale Montgomery nella linea pedemontana tra le province di
Catania ed Enna.
In
tal modo si consentì il ritiro oltre lo
Stretto di Messina di quasi tutte le truppe ed i mezzi combattenti, rendendo
per altro oltremodo difficile la conquista dell’Isola.
L’unico
previsto e concreto effetto che si ottenne fu quello della caduta di Mussolini,
del Fascismo e dell’armistizio con l’Italia. Tale vantaggio si rivelò, però,
praticamente inesistente e forse controproducente. Immediatamente dopo, infatti,
l’Italia venne invasa dai Tedeschi, senza che le poche truppe italiane
stanziate nel territorio nazionale, sbandate e mal comandate, avessero potuto opporre
resistenza alcuna (infatti il meglio dell’esercito era stato dislocato
all’estero ed era stato in gran parte annientato nelle disastrose campagne di
Russia e d’Africa).
Sta
di fatto che la campagna
d’Italia perdurò per ben due anni circa. Quando la Germania fu, alla fine,
messa in ginocchio a seguito dell’apertura del fronte occidentale dopo lo sbarco
in Normandia, avvenuto un anno dopo quello in Sicilia, ancora la conquista
dell’Italia non era stata completata.
Tali
decisioni furono variamente motivate e criticate.
Hugh
Pond[8], colonnello e storico
inglese, ci precisa che “gli Stati Uniti erano molto perplessi circa
l’opportunità di continuare la guerra, in qualunque forma, nel Mediterraneo ….
che tali operazioni non avrebbero distrutto la Germania , sarebbero state
di scarsa utilità alla Russia e non avrebbero avuto il minimo effetto sul
Giappone … e non si può dire che avessero torto.” A tali osservazioni, gli
Inglesi risposero ambiguamente e con inadeguate valutazioni strategiche, che
“Se si fosse arrivati a far uscire dalla guerra l’Italia, si sarebbe messa la Germania con le spalle al
muro”, ma tale conseguenza non ci fu.
Carlo
d’Este[9] afferma che,
nonostante gli Americani fossero contrari alla prosecuzione della guerra nel
Mediterraneo, tuttavia dovettero accettare a malincuore la scelta dello sbarco
in Sicilia tanto che: “Sebbene detestasse tutto ciò che aveva a che fare con il
Mediterraneo, Marshall non aveva dubbi sui vantaggi di invadere la Sicilia che considerava la
migliore delle alternative disponibili … Se le sue ragioni contro ulteriori
operazioni nel Mediterraneo non fossero state ascoltate (come non lo furono) ….
avrebbe accettato (come poi fece) la
Sicilia come operazione fondamentale e necessaria per
accorciare le linee di comunicazione ed aprire tutto il Mediterraneo al
movimento alleato”, ma non per altro.
Il
Colonnello G. A. Shepperd[10] non nasconde i contrasti
esistenti in proposito tra Inglesi ed Americani ed, a sostegno della strategia
inglese, riferisce quanto replicò sul punto di vista americano il generale
Alanbrooke con “un magistrale apprezzamento della situazione bellica” come
riportato da Artur Bryant[11]e cioè che “Le ventuno
divisioni disponibili nel 1943 non potevano portare a buon fine un attacco al
di là della Manica. I Tedeschi erano troppo forti in Francia … Tuttavia, se gli
Alleati avessero attaccato nel Mediterraneo, i Tedeschi sarebbero stati
costretti a spiegare … grandi forze per difendere una lunghissima linea costiera
… Eliminando dalla guerra l’Italia, gli Alleati ... avrebbero lasciato la Germania con 54 divisioni
e 2200 aerei in meno”.
Anche
lo storico Claude Bertin[12] ci conferma che la posizione inglese, portata
avanti da Churchill e dal suo Stato maggiore, era stata quella di ritenere che
l’Africa Settentrionale avrebbe dovuto “svolgere la funzione …. di un
trampolino di lancio” per invadere prima la Sicilia e poi l’Italia, come fu fatto, per poi
attaccare la Germania
da Sud, “essendo impossibile realizzare nel 1943 l’operazione Round-up (sbarco
in Francia) a causa delle difficoltà di mettere così rapidamente insieme le 48
divisioni …”.
Alberto
Santoni[13] aderisce a tali tesi
con ulteriori argomentazioni e conclude però che “La storiografia … soprattutto americana e marxista, punta
troppo spesso il dito accusatore su Churchill, raffigurandolo come prevenuto oppositore
del piano di sbarco oltre la
Manica , al deliberato proposito antisovietico … “ e si
dilunga poi su una presunta “buona fede di Churchill”, citando a sua difesa
alcuni scritti dello stesso interessato.
In
effetti bisogna pur riconoscere che è oltremodo probabile che la pervicacia
degli Inglesi e di Churchill in particolare nel sostenere la campagna d’Italia
fu determinata da inconfessabili calcoli politici a lungo termine.
Da
un lato si immaginava che dare eccessivo spazio alle iniziative americane
avrebbe potuto alla lunga aprire e facilitare la strada alla nuova nascente
leadership statunitense, a discapito di quella inglese. Dall’altro lato si
temeva anche che, aiutando concretamente i Russi con l’apertura immediata di un
nuovo fronte in Francia, questi ultimi avrebbero avuto più facilmente ragione
dei Tedeschi occupando gran parte dell’Europa continentale, a discapito di
tutto il mondo occidentale.
Sta
di fatto che ambedue le ipotesi vennero mancate: gli Americani riuscirono lo
stesso a subentrare all’Inghilterra nella leadership del mondo occidentale e la Russia riuscì ad occupare
tutta l’Europa dell’Est, mantenendola poi sotto la sua concreta dominazione per
oltre sessanta anni.
Come
ci dice lo storico Giovanni De Luna[14], “In Wiston
Churchill, una volta emersa con chiarezza la prospettiva della sconfitta
hitleriana, furono molto presenti considerazioni e progetti legati più al
dopoguerra che non alla guerra stessa. In particolare sul secondo fronte,
Churchill fu sempre molto tiepido agli appelli di Stalin …”.
Egli
continua assumendo che “Strenuo assertore del secondo fronte fu invece
Roosevelt … (che) rimase sempre fedele al suo disegno strategico iniziale,
quello che nella Germania aveva identificato l’avversario da battere …”.“(Egli)
era assistito dalla consapevolezza che, alla fine della guerra, si sarebbe
registrata comunque una incontrastata leadership internazionale degli U.S.A.
tale da non rendere preoccupante un’eventuale accresciuta potenza sovietica …”.
L’Amm.
Oscar Di Giamberardino[15] rileva che, dato che
i Sovietici avevano “insistito” per l’apertura di “un nuovo fronte nell’Europa
Occidentale allo scopo di far diminuire la pressione” tedesca sul fronte russo,
gli Inglesi, ricordando Dunkerque, “non erano propensi a ritentare un’altra azione
in Francia”, per cui proposero prima uno sbarco nell’Africa del Nord e poi in
Sicilia.
Continua
poi il Di Giamberardino che, non volendosi o non potendosi gli Alleati
impegnare in Francia, “sarebbe stato conveniente forse proseguire via mare, con
l’occupazione della Sardegna e della Corsica, per poi sbarcare in Toscana
servendosi anche dell’isola d’Elba in funzione di ponte, o meglio in Provenza
…”. Invece “è avvenuta l’avanzata nella penisola (italiana) …”. “Certo nel cambio
di obbiettivo non si poteva affermare con serietà che la promessa di
alleggerire la pressione sulla Russia fosse davvero mantenuta”.
Ancora
il Di Giamberardino ha costatato che “è caratteristico dell’empirismo anglosassone
quello di tendere ad allenamenti graduali, per saggiare le difficoltà e … giungere
al momento dello sforzo massimo … con la quasi certezza di aver provveduto nel
modo migliore a tutto …”.
Lo
stesso storico afferma che “Gli Anglo-Americani, oltre tutto, attesero tanto
nella convinzione che la
Germania fosse ancora troppo forte e che convenisse farle subire
altre onerose disavventure nel fronte orientale”.
[1] Giovanni De
Luna, La Seconda Guerra
Mondiale, in XIX Cap. del Vol. 13° de “La Storia ” UTET Ed. Torino e La Biblioteca di
Repubblica, 2004, p. 676.
[2] Ezio Costanzo,
Sicilia 1943, Breve storia dello sbarco alleato, Le Nuove Muse ed. Catania,
2003, p.17.
[3] Harold Rupert
Alexander, The Allied Armies in Italy, e
Le memorie del maresciallo Alexander,
1940-45, a
cura di John North, Milano, Garzanti, 1963.
[4] G.A. Shepperd in
La Campagna d’Italia, 1943-1945, Garzanti Ed. Milano 1975, pp. 14 e segg.
[5] Winston
Churchill, La Seconda
Guerra Mondiale, Vol. 6°,
su la Battaglia
d’Africa e la Campagna
d’Italia, I Problemi della Vittoria, Mondadori Ed. Milano 1965, pp. 2185 e
segg.
[6] Carlo D’Este, Lo
Sbarco in Sicilia, Mondadori Editore, 1990, p. 15 e segg.
[7] Arthur Bryant,
Tempo di Guerra, Milano 1972, p. 795 e Simona Cascio, Luglio 1943 in Provincia di Enna,
Memorie e Testimonianze, Tesi di Laurea Università di Catania, Fac. Scienze
Formazione, a. a. 2006/07, p. 27.
[8] Hugh Pond,
Sicilia!, Longanesi & C. Ed., Milano, 1964/71, p.37 e segg.
[9] Carlo D’Este,
op. cit. p. 30
[10] G.A..Shepperd in
La Campagna
d’Italia, 1943-1945, op. cit., pp. 14 e segg.
[11] Arthur Bryant,
The Turn of the Tide 1939 – 1943,
Collins Ed.. London 1953, p. 471.
[12] Claude Bertin,
in “Dalla Sicilia alla Provenza”, in La Seconda Guerra
Mondiale, Ed. Ferni, Ginevra, 1973, p. 10 e segg.
[13] Alberto Santoni,
“Le operazioni in Sicilia e in Calabria (Luglio 1943 – Settembre 1943), edito
dall’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito SME, Roma 1983, p. 26 e
segg.
[14] Giovanni De
Luna, La Seconda Guerra
Mondiale, op.cit., p. 681.
[15] Oscar di
Giamberardino, Introduzione allo studio delle operazioni nel bacino del
Mediterraneo e nel Marocco nel periodo compreso tra lo sbarco in Africa e
l’occupazione della Sicilia, Centro di alti Studi Militari, 3° Sessione, Roma
1951/52, p. 10 e segg.
ERO BALILLA
Nell’autunno del 1942 avevo cominciato a
frequentare la quinta classe della scuola elementare ed ero stato anche promosso
da “figlio della lupa” a
“balilla”.
Già ad Ottobre arrivò la notizia della
sconfitta delle truppe dell’Asse ad El Alamein. Dai bollettini di guerra che
ogni giorno il nostro maestro ci leggeva si capì che la guerra in Nord Africa
non andava bene. Ma la notizia che più di tutte ci colpì era stata quella della
successiva caduta di Tobruk in mano agli Inglesi.
Stranamente noi ragazzi ci sentivamo
legati a questa cittadina della Cirenaica che già era stata perduta e riconquistata
dalle nostre truppe parecchie volte. Avevamo anche visto ripetutamente,
nell’unico cinema di Enna, un eroico film di guerra su una delle tante
battaglie per Tobruk.
Ogni volta che le truppe italiane
riconquistavano quella roccaforte, il nostro maestro, all’inizio della lezione,
dopo averci invitato ad alzarci ed a metterci sull’attenti, ci leggeva con voce
stentorea l’ultimo bollettino di guerra. Così apprendevamo che “le eroiche truppe dell’Asse” avevano
conquistato Tobruk. L’annuncio veniva accolto con grandi grida di giubilo dato
che ciò significava che per quel giorno non ci sarebbero state lezioni perché
si doveva fare “la dimostrazione”.
Venivamo quindi invitati a lasciare la scuola “ordinatamente” per recarci a casa, posare i libri, indossare la
divisa di balilla e ritornare per la sfilata.
La via Roma, adiacente la nostra scuola,
veniva subito invasa da un festoso turbinio di ragazzi di tutte le scuole, che
allora erano ubicate nell’ex convento dei Gesuiti di S. Chiara. Tutti correvamo
gridando di gioia, più per la vacanza che per la vittoria conseguita.
Ci si metteva in divisa, si tornava di
nuovo a scuola dove ciascuno di noi, assumendo un atteggiamento marziale,
prendeva il posto assegnato in base alla squadra cui apparteneva, al grado ed
all’incarico che ricopriva ed, infine, all’altezza.
Avanti sfilava il gagliardetto portato
dal “capo- manipolo”, poi veniva la
squadra dei tamburini che battevano il tempo della marcia a passo romano ed
infine tutte le varie squadre, ordinate per classe. Per primi sfilavano i “Figli della Lupa”, bambini sino alla
quarta elementare. Venivamo poi i “Balilla”,
ragazzi sino alla terza ginnasio. Quindi sfilavano gli “Avanguardisti”, studenti delle superiori ed, infine, gli “Universitari”. La stessa cosa si
ripeteva per le ragazze e per gli anziani, con corpi e gradi diversi.
Ero anche tamburino, incarico
conquistato dopo lunghe e snervanti selezioni, dato che avevo un buon orecchio musicale. Ero molto
orgoglioso della mia divisa, del mio tamburo e del grande medaglione che
portavo al petto, dove c’era riprodotta l’effigie del Duce di profilo con elmo
guerresco.
La sfilata si snodava per le vie
cittadine e si concludeva in Piazza S. Benedetto avanti alla “Casa del Fascio” dove ogni squadra si
ordinava disciplinatamente in ranghi serrati. Nell’attesa di vedere apparire al
balcone il “Federale”, ci si sgolava
a gridare all’unisono i vari motti del regime. Da “Vincere e vinceremo”, a “Viva
il Duce e viva il Re” ed a vari ed innumerevoli saluti fascisti ed “Eia, eia, alalà”.
Di tanto in tanto si intonavano anche
alcune strofe delle canzoni di rito tra cui prevaleva “giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza …”.
Infine si apriva il fatidico balcone e
si affacciava il Federale con accanto i vari gerarchi locali, tutti in divisa.
Poche parole stentoree, in perfetto
stile mussoliniano, celebravano l’avvenimento e quindi, dopo gli ultimi canti,
la dimostrazione veniva sciolta ed eravamo autorizzati a tornarcene a casa.
Tutti tranne coloro che, come me,
avevano qualcosa da riconsegnare a scuola. Io, con gran dolore, dovevo
riportare il tamburo. Mi sfogavo, però, suonandolo e battendolo vibratamente
ancora per tutta la strada sin dentro il cortile della scuola, suscitando le
ire prima dei passanti ed, infine, del bidello.
Si andava quindi alla villetta del
Belvedere a giocare, a litigare, a rincorrerci sempre in divisa, contravvenendo
all’ordine ricevuto di andare subito a riporla a casa per non “disonorarla”.
Cessata la manifestazione, la nostra
vita riprendeva il solito andazzo e non venivamo a sapere mai quando “le eroiche truppe dell’Asse” avevano
perso Tobruk per le alterne vicende della guerra.
Sta di fatto che, dopo qualche tempo, il
maestro ci leggeva un nuovo bollettino di guerra. Risultava ancora che sempre
le stesse “eroiche truppe dell’Asse”
avevano riconquistato Tobruk.
La storia era sempre la stessa. Nessuno
aveva l’ardire di rilevare che era la medesima “dimostrazione” che si ripeteva uguale alle precedenti.
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PREFAZIONE
L’ultima invasione della Sicilia nel Luglio
1943, quando sbarcarono gli Anglo-americani e della quale fui testimone, è stata una
delle esperienze più traumatiche delle mia vita.
Quei fatti mi sono rimasti impressi
nella memoria, nonostante il lungo tempo trascorso e la circostanza, non trascurabile,
che allora io fossi soltanto un ragazzo di dieci anni.
Ho ritrovato recentemente, tra i miei
libri, un volumetto intitolato “Cronachetta Siciliana dell’estate 1943” [1] di
Nino Savarese, scritto di getto dall’autore quando ancora la Seconda Guerra Mondiale
era in corso e che, in un turbinio di una sola estate, aveva da poco lasciato
la Sicilia.
Il Savarese ci fa una breve cronaca, la
sua cronaca, della guerra che ha visto, ci espone le sue riflessioni e così comincia:
“La guerra, che ancora si combatte, qui è
vista solo in un piccolissimo punto dello spazio immenso che essa occupa e in un breve momento della
sua durata. Il luogo è il giro di una piccola contrada dell’interno della
Sicilia; il tempo dell’estate del 1943. Null’altro che un ricordo delle poche
cose che ho visto e dei pensieri che mi hanno rattristato.”
Desidero oggi narrare la mia cronaca ed
esporre le mie riflessioni su quella lunga estate dallo stesso punto di vista:
una piccola contrada all’interno della Sicilia.
Ho pensato di rivivere quegli
avvenimenti anche per confrontarli con le mie successive esperienze di vita e,
per quanto possibile, con gli scritti di alcuni di coloro che negli anni hanno
trattato l’argomento.
Di tanto riferisco: da un lato i miei
ricordi (in caratteri normali) e dall’altro le mie letture (in caratteri
corsivi), con il solo scopo di dare una testimonianza, la mia testimonianza,
dettata solo dalle mie impressioni e valutazioni personali.
Voglio solo sperare che io sia riuscito
a trasmettere ai miei lettori le sensazioni che hanno suscitato in me i ricordi
che narro ed i fatti storici che esamino.
Buona lettura.
L’autore
[1] Nino Savarese,
Cronachetta Siciliana dell’Estate 1943, Salvatore Sciascia Editore,
Caltanissetta Roma 1963,
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