Nell’autunno del 1942 avevo cominciato a
frequentare la quinta classe della scuola elementare ed ero stato anche promosso
da “figlio della lupa” a
“balilla”.
Già ad Ottobre arrivò la notizia della
sconfitta delle truppe dell’Asse ad El Alamein. Dai bollettini di guerra che
ogni giorno il nostro maestro ci leggeva si capì che la guerra in Nord Africa
non andava bene. Ma la notizia che più di tutte ci colpì era stata quella della
successiva caduta di Tobruk in mano agli Inglesi.
Stranamente noi ragazzi ci sentivamo
legati a questa cittadina della Cirenaica che già era stata perduta e riconquistata
dalle nostre truppe parecchie volte. Avevamo anche visto ripetutamente,
nell’unico cinema di Enna, un eroico film di guerra su una delle tante
battaglie per Tobruk.
Ogni volta che le truppe italiane
riconquistavano quella roccaforte, il nostro maestro, all’inizio della lezione,
dopo averci invitato ad alzarci ed a metterci sull’attenti, ci leggeva con voce
stentorea l’ultimo bollettino di guerra. Così apprendevamo che “le eroiche truppe dell’Asse” avevano
conquistato Tobruk. L’annuncio veniva accolto con grandi grida di giubilo dato
che ciò significava che per quel giorno non ci sarebbero state lezioni perché
si doveva fare “la dimostrazione”.
Venivamo quindi invitati a lasciare la scuola “ordinatamente” per recarci a casa, posare i libri, indossare la
divisa di balilla e ritornare per la sfilata.
La via Roma, adiacente la nostra scuola,
veniva subito invasa da un festoso turbinio di ragazzi di tutte le scuole, che
allora erano ubicate nell’ex convento dei Gesuiti di S. Chiara. Tutti correvamo
gridando di gioia, più per la vacanza che per la vittoria conseguita.
Ci si metteva in divisa, si tornava di
nuovo a scuola dove ciascuno di noi, assumendo un atteggiamento marziale,
prendeva il posto assegnato in base alla squadra cui apparteneva, al grado ed
all’incarico che ricopriva ed, infine, all’altezza.
Avanti sfilava il gagliardetto portato
dal “capo- manipolo”, poi veniva la
squadra dei tamburini che battevano il tempo della marcia a passo romano ed
infine tutte le varie squadre, ordinate per classe. Per primi sfilavano i “Figli della Lupa”, bambini sino alla
quarta elementare. Venivamo poi i “Balilla”,
ragazzi sino alla terza ginnasio. Quindi sfilavano gli “Avanguardisti”, studenti delle superiori ed, infine, gli “Universitari”. La stessa cosa si
ripeteva per le ragazze e per gli anziani, con corpi e gradi diversi.
Ero anche tamburino, incarico
conquistato dopo lunghe e snervanti selezioni, dato che avevo un buon orecchio musicale. Ero molto
orgoglioso della mia divisa, del mio tamburo e del grande medaglione che
portavo al petto, dove c’era riprodotta l’effigie del Duce di profilo con elmo
guerresco.
La sfilata si snodava per le vie
cittadine e si concludeva in Piazza S. Benedetto avanti alla “Casa del Fascio” dove ogni squadra si
ordinava disciplinatamente in ranghi serrati. Nell’attesa di vedere apparire al
balcone il “Federale”, ci si sgolava
a gridare all’unisono i vari motti del regime. Da “Vincere e vinceremo”, a “Viva
il Duce e viva il Re” ed a vari ed innumerevoli saluti fascisti ed “Eia, eia, alalà”.
Di tanto in tanto si intonavano anche
alcune strofe delle canzoni di rito tra cui prevaleva “giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza …”.
Infine si apriva il fatidico balcone e
si affacciava il Federale con accanto i vari gerarchi locali, tutti in divisa.
Poche parole stentoree, in perfetto
stile mussoliniano, celebravano l’avvenimento e quindi, dopo gli ultimi canti,
la dimostrazione veniva sciolta ed eravamo autorizzati a tornarcene a casa.
Tutti tranne coloro che, come me,
avevano qualcosa da riconsegnare a scuola. Io, con gran dolore, dovevo
riportare il tamburo. Mi sfogavo, però, suonandolo e battendolo vibratamente
ancora per tutta la strada sin dentro il cortile della scuola, suscitando le
ire prima dei passanti ed, infine, del bidello.
Si andava quindi alla villetta del
Belvedere a giocare, a litigare, a rincorrerci sempre in divisa, contravvenendo
all’ordine ricevuto di andare subito a riporla a casa per non “disonorarla”.
Cessata la manifestazione, la nostra
vita riprendeva il solito andazzo e non venivamo a sapere mai quando “le eroiche truppe dell’Asse” avevano
perso Tobruk per le alterne vicende della guerra.
Sta di fatto che, dopo qualche tempo, il
maestro ci leggeva un nuovo bollettino di guerra. Risultava ancora che sempre
le stesse “eroiche truppe dell’Asse”
avevano riconquistato Tobruk.
La storia era sempre la stessa. Nessuno
aveva l’ardire di rilevare che era la medesima “dimostrazione” che si ripeteva uguale alle precedenti.
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