lunedì 20 febbraio 2012

ERO BALILLA




Nell’autunno del 1942 avevo cominciato a frequentare la quinta classe della scuola elementare ed ero stato anche promosso da “figlio della lupa”  a “balilla”.
Già ad Ottobre arrivò la notizia della sconfitta delle truppe dell’Asse ad El Alamein. Dai bollettini di guerra che ogni giorno il nostro maestro ci leggeva si capì che la guerra in Nord Africa non andava bene. Ma la notizia che più di tutte ci colpì era stata quella della successiva caduta di Tobruk in mano agli Inglesi.
Stranamente noi ragazzi ci sentivamo legati a questa cittadina della Cirenaica che già era stata perduta e riconquistata dalle nostre truppe parecchie volte. Avevamo anche visto ripetutamente, nell’unico cinema di Enna, un eroico film di guerra su una delle tante battaglie per Tobruk.
Ogni volta che le truppe italiane riconquistavano quella roccaforte, il nostro maestro, all’inizio della lezione, dopo averci invitato ad alzarci ed a metterci sull’attenti, ci leggeva con voce stentorea l’ultimo bollettino di guerra. Così apprendevamo che “le eroiche truppe dell’Asse” avevano conquistato Tobruk. L’annuncio veniva accolto con grandi grida di giubilo dato che ciò significava che per quel giorno non ci sarebbero state lezioni perché si doveva fare “la dimostrazione”. Venivamo quindi invitati a lasciare la scuola “ordinatamente” per recarci a casa, posare i libri, indossare la divisa di balilla e ritornare per la sfilata.
La via Roma, adiacente la nostra scuola, veniva subito invasa da un festoso turbinio di ragazzi di tutte le scuole, che allora erano ubicate nell’ex convento dei Gesuiti di S. Chiara. Tutti correvamo gridando di gioia, più per la vacanza che per la vittoria conseguita.
Ci si metteva in divisa, si tornava di nuovo a scuola dove ciascuno di noi, assumendo un atteggiamento marziale, prendeva il posto assegnato in base alla squadra cui apparteneva, al grado ed all’incarico che ricopriva ed, infine, all’altezza.
Avanti sfilava il gagliardetto portato dal “capo- manipolo”, poi veniva la squadra dei tamburini che battevano il tempo della marcia a passo romano ed infine tutte le varie squadre, ordinate per classe. Per primi sfilavano i “Figli della Lupa”, bambini sino alla quarta elementare. Venivamo poi i “Balilla”, ragazzi sino alla terza ginnasio. Quindi sfilavano gli “Avanguardisti”, studenti delle superiori ed, infine, gli “Universitari”. La stessa cosa si ripeteva per le ragazze e per gli anziani, con corpi e gradi diversi.
Ero anche tamburino, incarico conquistato dopo lunghe e snervanti selezioni, dato che  avevo un buon orecchio musicale. Ero molto orgoglioso della mia divisa, del mio tamburo e del grande medaglione che portavo al petto, dove c’era riprodotta l’effigie del Duce di profilo con elmo guerresco.
La sfilata si snodava per le vie cittadine e si concludeva in Piazza S. Benedetto avanti alla “Casa del Fascio” dove ogni squadra si ordinava disciplinatamente in ranghi serrati. Nell’attesa di vedere apparire al balcone il “Federale”, ci si sgolava a gridare all’unisono i vari motti del regime. Da “Vincere e vinceremo”, a “Viva il Duce e viva il Re” ed a vari ed innumerevoli saluti fascisti ed “Eia, eia, alalà”.
Di tanto in tanto si intonavano anche alcune strofe delle canzoni di rito tra cui prevaleva “giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza …”.    
Infine si apriva il fatidico balcone e si affacciava il Federale con accanto i vari gerarchi locali, tutti in divisa.
Poche parole stentoree, in perfetto stile mussoliniano, celebravano l’avvenimento e quindi, dopo gli ultimi canti, la dimostrazione veniva sciolta ed eravamo autorizzati a tornarcene a casa.
Tutti tranne coloro che, come me, avevano qualcosa da riconsegnare a scuola. Io, con gran dolore, dovevo riportare il tamburo. Mi sfogavo, però, suonandolo e battendolo vibratamente ancora per tutta la strada sin dentro il cortile della scuola, suscitando le ire prima dei passanti ed, infine, del bidello.
Si andava quindi alla villetta del Belvedere a giocare, a litigare, a rincorrerci sempre in divisa, contravvenendo all’ordine ricevuto di andare subito a riporla a casa per non “disonorarla”. 
Cessata la manifestazione, la nostra vita riprendeva il solito andazzo e non venivamo a sapere mai quando “le eroiche truppe dell’Asse” avevano perso Tobruk per le alterne vicende della guerra.
Sta di fatto che, dopo qualche tempo, il maestro ci leggeva un nuovo bollettino di guerra. Risultava ancora che sempre le stesse “eroiche truppe dell’Asse” avevano riconquistato Tobruk.
La storia era sempre la stessa. Nessuno aveva l’ardire di rilevare che era la medesima “dimostrazione” che si ripeteva uguale alle precedenti.

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