L’inizio del 1943 fu ancora peggiore
della fine del precedente anno. Le brutte notizie si erano susseguite le une alle
altre. Dopo Tobruk erano cadute Tripoli e parecchie altre città della Libia.
Gli Americani, sopraggiunti in aiuto
degli Inglesi, erano anche sbarcati nell’Africa del Nord ed ora si combatteva
l’ultima battaglia in Tunisia.
Sul fronte orientale era poi caduta
Stalingrado con parecchie altre città russe ed il corpo di spedizione italiano,
che si era attestato sul Don, era stato costretto ad una lunga e micidiale
ritirata, metaforicamente chiamata “ritirata
strategica”.
La notizia più significativa fu quella
che la guerra era arrivata con i bombardamenti in Italia e, soprattutto per
noi, in Sicilia.
Nella nostra isola vennero colpite le
principali città tra cui Palermo, Catania, Trapani ed Augusta e si temeva prossimo
uno sbarco degli Alleati. Le popolazioni abbandonarono le città della costa per
rifugiarsi nelle campagne dell’interno per sfuggire sia alle bombe sia ad un
eventuale sbarco nemico. Alcuni arrivarono anche nelle nostre parti e narravano
storie di distruzione, di morte e, soprattutto, di fame.
Io apprendevo le notizie sulla guerra
dai giornalini “Il Corriere dei Piccoli” e “Il Balilla” che leggevo avidamente
e che evidentemente presentavano l’argomento in forma leggera e
propagandistica. Ricordo ancora oggi la prima pagina de “Il Balilla” che
iniziava immancabilmente, ogni settimana, a narrare una storia di guerra con
dei disegni corredati da didascalie in versi. Quasi sempre la prima vignetta
rappresentava in caricatura Re Giorgio d’Inghilterra e Churchill e veniva
commentata dai seguenti versetti, che ancora ricordo a memoria: “Re Giorgetto d’Inghilterra / che aveva paura
della guerra / chiese aiuto e protezione / al suo amico Ciurcillone”.
Le notizie vere invece le apprendevo in
una doppia versione. La prima, mitigata ed ancora infarcita di frasi propagandistiche
ed ottimiste, che mi veniva inculcata a scuola, alla radio e alle adunate
paramilitari del sabato fascista, che continuavo a frequentare
entusiasticamente come balilla. La seconda invece preoccupata e pessimista che
deducevo dai discorsi che mio padre Luigi faceva in famiglia, specie dopo aver
ascoltato Radio Londra di soppiatto e nottetempo.
Il palazzo di Piazza San Marco, già sede
della Prefettura, dopo che questa si era trasferita nel nuovo Palazzo del Governo
appena costruito, era stato adibito a comando della Sesta Armata dell’Esercito Italiano
e di tutte le Forze Armate della Sicilia, comprese quelle tedesche. Queste
truppe erano dislocate in tutta la nostra isola ed avevano il compito di
difendere i “sacri confini della Patria”
dall’eventuale attacco delle truppe degli stati “demo-plutocratici”. Il nostro quartiere, essendo vicinissimo al
Comando, era frequentato da ufficiali di ogni ordine e grado che io avevo
imparato a conoscere bene. Ero diventato un esperto di gradi militari e di
divise delle varie armi. Sbalordivo i miei genitori, gli amici ed i conoscenti
per la grande competenza acquisita in proposito. Alcuni ufficiali addirittura
abitavano in un appartamento requisito e di proprietà della mia famiglia, sito
al primo piano della nostra casa.
Avevo assistito in prima fila in Piazza
San Marco alla cerimonia del passaggio delle consegne tra il Gen. Roatta ed il
Gen. Guzzoni nel comando della 6a Armata. Non avevo perso un solo passo della
manifestazione. Mi avevano affascinato soprattutto gli squilli di tromba, gli
inni eseguiti dalla banda musicale dell’esercito, gli ordini secchi e repentini
dati con voci squillanti e determinate, le sfilate dei militari, i saluti
formali seguiti da battute di tacchi e di piedi, le bandiere e gli stendardi al
vento.
Mi sentivo partecipe di un importante
evento che suscitava in me grande commozione sino alle lacrime.
Tornato alla fine a casa, avevo
esternato le mie emozioni ai genitori e grande era stata la sorpresa quando,
invece di trovare solidarietà e partecipazione al mio stato d’animo, fui subito
zittito. Mia madre aveva gli occhi pieni di lacrime mentre mio padre cercava di
consolarla e calmarla: stavano discutendo della immediata necessità di “sfollare” la famiglia in campagna dove
speravano di sfuggire ai pericoli della guerra ormai vicina e, soprattutto,
ai temuti bombardamenti.
Un grandissimo tabellone, attaccato sul
muro della Chiesa di San Marco prospiciente la piazza antistante,
rappresentava a colori la carta geografica dell’Europa e dell’Africa del Nord.
Delle bandierine italiane e tedesche
erano state appuntate sui vari fronti della guerra in corrispondenza delle più
importanti città occupate dalle truppe dell’Asse. Le più avanzate erano state
apposte su Stalingrado sul fronte orientale, su El Alamein sul fronte Africano,
su Atene, sulle altre capitali dei Balcani su quel fronte e su Parigi ed Oslo
sul fronte europeo.
Da qualche mese, dopo che era iniziata
la ritirata dai vari fronti, nessuno aveva avuto il coraggio di aggiornare il tabellone
risistemando le bandierine sulle posizioni arretrate. Qualcuno continuava a
sperare ancora, ma invano, che le varie ritirate fossero state veramente
strategiche, come proclamavano i bollettini di guerra. Invero i più, sommessamente,
temevano il peggio.
Le bandierine, tuttavia, restavano al
loro posto per il timore di un’accusa di “disfattismo”.
E dire che il tabellone era sistemato
nella stessa piazza del Comando della Sesta Armata e suscitava le amare e
malcelate ironie dei passanti.
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