martedì 21 febbraio 2012

LE NOTIZIE DELLA GUERRA



L’inizio del 1943 fu ancora peggiore della fine del precedente anno. Le brutte notizie si erano susseguite le une alle altre. Dopo Tobruk erano cadute Tripoli e parecchie altre città della Libia.
Gli Americani, sopraggiunti in aiuto degli Inglesi, erano anche sbarcati nell’Africa del Nord ed ora si combatteva l’ultima battaglia in Tunisia.
Sul fronte orientale era poi caduta Stalingrado con parecchie altre città russe ed il corpo di spedizione italiano, che si era attestato sul Don, era stato costretto ad una lunga e micidiale ritirata, metaforicamente chiamata “ritirata strategica”.
La notizia più significativa fu quella che la guerra era arrivata con i bombardamenti in Italia e, soprattutto per noi, in Sicilia.
Nella nostra isola vennero colpite le principali città tra cui Palermo, Catania, Trapani ed Augusta e si temeva prossimo uno sbarco degli Alleati. Le popolazioni abbandonarono le città della costa per rifugiarsi nelle campagne dell’interno per sfuggire sia alle bombe sia ad un eventuale sbarco nemico. Alcuni arrivarono anche nelle nostre parti e narravano storie di distruzione, di morte e, soprattutto, di fame.
Io apprendevo le notizie sulla guerra dai giornalini “Il Corriere dei Piccoli” e “Il Balilla” che leggevo avidamente e che evidentemente presentavano l’argomento in forma leggera e propagandistica. Ricordo ancora oggi la prima pagina de “Il Balilla” che iniziava immancabilmente, ogni settimana, a narrare una storia di guerra con dei disegni corredati da didascalie in versi. Quasi sempre la prima vignetta rappresentava in caricatura Re Giorgio d’Inghilterra e Churchill e veniva commentata dai seguenti versetti, che ancora ricordo a memoria: “Re Giorgetto d’Inghilterra / che aveva paura della guerra / chiese aiuto e protezione / al suo amico Ciurcillone”.
Le notizie vere invece le apprendevo in una doppia versione. La prima, mitigata ed ancora infarcita di frasi propagandistiche ed ottimiste, che mi veniva inculcata a scuola, alla radio e alle adunate paramilitari del sabato fascista, che continuavo a frequentare entusiasticamente come balilla. La seconda invece preoccupata e pessimista che deducevo dai discorsi che mio padre Luigi faceva in famiglia, specie dopo aver ascoltato Radio Londra di soppiatto e nottetempo. 
Il palazzo di Piazza San Marco, già sede della Prefettura, dopo che questa si era trasferita nel nuovo Palazzo del Governo appena costruito, era stato adibito a comando della Sesta Armata dell’Esercito Italiano e di tutte le Forze Armate della Sicilia, comprese quelle tedesche. Queste truppe erano dislocate in tutta la nostra isola ed avevano il compito di difendere i “sacri confini della Patria” dall’eventuale attacco delle truppe degli stati “demo-plutocratici”. Il nostro quartiere, essendo vicinissimo al Comando, era frequentato da ufficiali di ogni ordine e grado che io avevo imparato a conoscere bene. Ero diventato un esperto di gradi militari e di divise delle varie armi. Sbalordivo i miei genitori, gli amici ed i conoscenti per la grande competenza acquisita in proposito. Alcuni ufficiali addirittura abitavano in un appartamento requisito e di proprietà della mia famiglia, sito al primo piano della nostra casa.
Avevo assistito in prima fila in Piazza San Marco alla cerimonia del passaggio delle consegne tra il Gen. Roatta ed il Gen. Guzzoni nel comando della 6a Armata. Non avevo perso un solo passo della manifestazione. Mi avevano affascinato soprattutto gli squilli di tromba, gli inni eseguiti dalla banda musicale dell’esercito, gli ordini secchi e repentini dati con voci squillanti e determinate, le sfilate dei militari, i saluti formali seguiti da battute di tacchi e di piedi, le bandiere e gli stendardi al vento.
Mi sentivo partecipe di un importante evento che suscitava in me grande commozione sino alle lacrime.
Tornato alla fine a casa, avevo esternato le mie emozioni ai genitori e grande era stata la sorpresa quando, invece di trovare solidarietà e partecipa­zione al mio stato d’animo, fui subito zittito. Mia madre aveva gli occhi pieni di lacrime mentre mio padre cercava di consolarla e calmarla: stavano discutendo della immediata necessità di “sfollare” la famiglia in campagna dove speravano di sfug­gire ai pericoli della guerra ormai vicina e, soprat­tutto, ai temuti bombardamenti.
Un grandissimo tabellone, attaccato sul muro della Chiesa di San Marco prospiciente la piazza antistante, rappresentava a colori la carta geografica dell’Europa e dell’Africa del Nord.
Delle bandierine italiane e tedesche erano state appuntate sui vari fronti della guerra in corrispondenza delle più importanti città occupate dalle truppe dell’Asse. Le più avanzate erano state apposte su Stalingrado sul fronte orientale, su El Alamein sul fronte Africano, su Atene, sulle altre capitali dei Balcani su quel fronte e su Parigi ed Oslo sul fronte europeo.
Da qualche mese, dopo che era iniziata la ritirata dai vari fronti, nessuno aveva avuto il coraggio di aggiornare il tabellone risistemando le bandierine sulle posizioni arretrate. Qualcuno continuava a sperare ancora, ma invano, che le varie ritirate fossero state veramente strategiche, come proclamavano i bollettini di guerra. Invero i più, sommessamente, temevano il peggio.
Le bandierine, tuttavia, restavano al loro posto per il timore di un’accusa di “disfattismo”.
E dire che il tabellone era sistemato nella stessa piazza del Comando della Sesta Armata e suscitava le amare e malcelate ironie dei passanti.

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